Angeletti (Uil):
“Si a Fabbrica Italia, ma insieme alla Fiat devono crescere anche i
salari”
di Giuseppe Sabella e
Luigi Degan
Luigi Angeletti, Segretario Generale della Uil, intervistato da Tempi:
“La Cgil è traumatizzata dalla globalizzazione. In Europa non sono i Governi a
decidere le politiche economiche, la centralità dell Stato oggi è ideologia”.
Una lunga esperienza sindacale iniziata negli anni ’70. Nel
luglio 1994, alla guida della Uilm, Angeletti realizza il primo rinnovo del contratto
dei metalmeccanici senza una sola ora di sciopero. E’ stato tra i più attivi
sostenitori della nascita del moderno stabilimento europeo dell'auto (FIAT di
Melfi). Nel 1998 viene eletto Segretario Confederale UIL e, dal 13 giugno del
2000, ne è Segretario Generale. Luigi Angeletti è anche membro dell’Esecutivo
della Confederazione Europea dei Sindacati (CES) e Consigliere del Consiglio
Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL).
Segretario Angeletti,
il Sindacato da anni sta dando un contributo molto importante al processo di
riforma del lavoro. Quali sono le difficoltà che lei ha incontrato alla guida
della UIL?
Le difficoltà sono abbastanza oggettive, si tratta di
produrre dei cambiamenti e questo impone di avere un’idea sufficientemente
chiara della direzione verso cui questi cambiamenti spingono. E quindi avere
anche la capacità di adeguare risposte diverse ai problemi che magari sono
sempre gli stessi: come proteggere le persone e che tipo di regole nuove ci
vogliono ai fini di conservare la missione del sindacato, che è quella di
rappresentare le persone. Il problema vero è che bisogna farlo con metodologie
diverse da quelle che sono state sperimentate in passato.
Quindi a volte le
resistenze che si incontrano sono dettate dalle novità più che da un vero e
proprio problema reale… si spiega così l’isolamento della Cgil?
E’ proprio così. La Cgil è traumatizzata dalla
globalizzazione. Basta leggere e vedere ciò che dicono e si nota che
percepiscono ogni cambiamento come negativo. Ora, non tutti i cambiamenti sono
di per sé positivi, ma sicuramente l’ultima scelta che bisogna fare è quella di
essere dei conservatori nel senso più classico del termine. Cosa fanno le
persone conservatrici o le persone molto anziane? Parlano solo del passato, di
come era. Tutto ciò che è nuovo è pericoloso, sbagliato, non va bene… Questo
trauma della globalizzazione è anche il diverso ruolo dello Stato, la perdita
della sovranità degli Stati su molti aspetti della vita economica e sociale,
soprattutto in Europa per effetto del processo di Costituzione dell’Europa a
partire dalla moneta unica. In un’organizzazione così timorosa dei cambiamenti,
si aggiunga la perdita di centralità dello Stato nazionale a cui la Cgil era
ideologicamente attaccata. L’unica cosa che conta, anche se spesso dicono delle
cose che fanno sorridere, è che pensano che la politica economica del governo
sia fondamentale. Ma in nessun paese europeo la politica economica è decisa dai
governi, come è evidente dall’appartenenza all’Unione Europea. La richiesta di
leggi, questa centralità politicamente assorbente dello Stato, è un po’ nella
loro ideologia, che ovviamente oggi è quasi dannosa e produce un effetto di
spaesamento. Non rierscono ad elaborare una teoria che non sia quella del danno
temuto.
Quindi, non si tratta
solamente di posizioni conservatrici, ma anche di grosse difficoltà di lettura
dei cambiamenti…
Il punto è proprio questo: i lavoratori, come tutte le
persone normali, si interrogano chiedendosi se i cambiamenti in atto sono
positivi o negativi, utili o non utili, e su come è possibile reagire. Se
coloro che si sono assunti il compito di dare delle risposte ed offrire delle
soluzioni sono i primi ad essere impauriti, come si può pensare che i
lavoratori possano essere aiutati a capire come vanno le cose? I gruppi
dirigenti esistono per dare delle risposte, non per aumentare le domande e
l’incertezza.
In merito alla legge
delega sullo Statuto dei lavori, la cui bozza vi è stata inoltrata dal Ministro
Sacconi, ci sembra innanzitutto importante il coinvolgimento del Sindacato
nella stesura del disegno di legge. Ritiene che sia un passo in avanti verso la
modernizzazione del sistema delle tutele per i lavoratori?
L’osservazione è molto significativa. Si tratta di un
cambiamento di impostazione: lo Stato fa un passo indietro e cerca di
coinvolgere la cosiddetta società civile, in questo caso – parlando di lavoro –
le Parti Sociali, nella definizione di regole nuove. Che è esattamente ciò di
cui c’è bisogno, di fare regole nuove e di non illudersi che ci siano degli
illuminati che possiedono delle risposte. Le risposte nuove possono essere
trovate solo attraverso il coinvolgimento delle persone che vivono questi
problemi, come le Parti Sociali. Un tempo le regole sul mercato del lavoro
veniveno decise dai Parlamenti. La conclusione è che queste risposte non
possono essere date dallo Stato: il coinvolgimento delle Parti Sociali non è
solo un’idea condivisibile, ma anche molto moderna, corrispondente ai nuovi
assetti della Società.
In particolare la
bozza si riferisce ai lavoratori dipendenti e ai collaboratori in regime di
mono-committenza senza nulla dire circa i lavoratori autonomi che possono
considerarsi, in alcuni ma significativi casi, anche più deboli. Cosa ne pensa?
Il problema della mono-committenza è molto semplice,
l’anomalia dell’Italia è questa condizione. Siccome non si riesce più da molto
tempo a costruire, a definire banalmente, delle nuove regole, è stata fatta
un’operazione molto semplice: si è cercato di rendere labile e quasi impercettibile
la differenza che c’è tra un lavoratore autonomo e un lavoratore dipendente. Il
co.co.co. e le partite iva fasulle che cos’erano se non lavoro dipendente? Ad
esempio, la cassiera di un supermercato non è un lavoratore autonomo, perché
non decide come e quando lavorare e quanto guadagnare, caratteristiche tipiche
del lavoro autonomo. Quindi, dettare delle regole che facciano questa
distinzione, è uno degli aspetti che consideriamo da anni; sono stati fatti
passi avanti facendo chiarezza nelle collaborazioni coordinate e continuative.
Ma, appena questo è stato fatto, sono aumentate le partite iva. Il lavoratore
dipendente non ha rischi d’impresa, non è sul mercato come un professionista.
Quindi l’unica cosa vera è cercare di capire se una partita iva è vera o non
vera, quali sono i caratteri che la contraddistinguono. Ad esempio, tra le
partite iva ci sono professionisti che guadagnano 2 milioni di euro l’anno.
Sono paragonabili alle partite iva che guadagnano 10 mila euro l’anno? A
livello di tutele, perché dovremmo estendere la cassa integrazione a un
professionista come Marchionne?
Ora che la
contrattazione sta diventando sempre più aziendale e decentrata, qual è la
politica sindacale che la UIL dovrebbe perseguire nel prossimo decennio? E come
ritiene che sarà il rapporto con i diversi sindacati anche locali?
I sindacati locali devono piano piano perdere – i nostri lo
faranno – caratteristiche e aspetti centralistici nel modo di organizzare le
relazioni sindacali. Anzi, il sindacato nel suo complesso, tout court, dovrebbe
farlo. Venti anni fa ciò aveva un senso, oggi non ne ha nessuno. E’ un problema
di pigrizia mentale o di strutture di potere banali all’interno delle
organizzazioni sindacali. L’articolazione territoriale o aziendale è un’utile
necessità. E’ il modo che rientra nella nostra natura di italiani, non abbiamo
una storia e una cultura di paese centralista, anche se poi lo siamo diventati
in qualche ramo. Questo è un concetto che, almeno dentro la Uil, è stato
perfettamente compreso e si procede senza drammi, perché è una cosa che abbiamo
a lungo discusso, pensato, elaborato e dibattuto, da molti anni. E quindi oggi
siamo nella condizione di applicare tutto come una buona pratica che abbiamo
meditato e, per certi versi, voluto. Noi, a differenza di altri, da 10 anni
chiediamo di cambiare il modello contrattuale rispetto a quello iper
centralistico che avevamo prodotto all’inizio degli anni 90, allora necessario.
E finalmente poi ci siamo riusciti, con un po’ di fatica. Non abbiamo subito
nessuna riforma, l’abbiamo rivendicata per molto tempo.
Come ritiene che
debba realizzarsi una maggior partecipazione dei lavoratori all’azienda?
In diversi modi, perché differenziata è la struttura del
nostro sistema economico. Questa differenziazione è una banalità che tutti
conoscono, anche voi giornalisti. E’ però paradossale che le risposte non
tengano conto di un’analisi che si fa, che le medicine siano altre rispetto
alla diagnosi che si fa. Poi bisogna valutare se questa differenziazione è cosa
buona o non buona. Si può ritenere che la bontà stia nel diventare tutti uguali
e fare grandi imprese, anche se abbiamo fatto il contrario per tanti anni e
anche in presenza di un’avversione per la grande impresa nel patrimonio
ideologico dell’Italia; nella grande impresa si può avere una co-gestione alla
tedesca, se l’azienda è quotata in borsa addirittura la partecipazione
azionaria.
Le grandi imprese
però iin Italia sono poche, come ha ricordato lei. Nelle altre è possibile
pensare ad una maggior partecipazione dei lavoratori?
Nella media impresa è evidente che la partecipazione
azionaria è da escludere, anche da un punto di vista ideologico. Qui bisogna
trovare quei sistemi che consentano ai lavoratori di conoscere quali sono le
politiche dell’impresa per poter dire la loro opinione. Dire quali sono gli
obbiettivi produttivi dell’impresa per condividerne quindi anche i risultati
che ripartiscono in maniera più congrua i vantaggi che l’impresa ha quando ha
successo. La cosa veramente importante è rompere quella frattura che c’è tra
coloro che comandano e coloro che obbediscono, la divisione tra capitale e
lavoro. Oggi questa non è più possibile: il lavoro è conoscenza e la conoscenza
è fattore di produzione più importante del capitale. Quindi la divisione tra
capitale e forza lavoro è, oltre che ideologica, superata da un punto di vista
storico e pratico.
Un’ultima domanda:
cosa ci dice a proposito di Mirafiori?
Abbiamo dato il nostro assenso al progetto Fabbrica Italia
perché consente di mantenere dei posti di lavoro e la produzione di auto di un
certo livello. Poi nell’ambito del contenuto degli accordi è necessario che,
alle richieste della Fiat, segua la disponibilità ad un incremento dei salari
dei lavoratori.