Luigi Degan
Sono 11 milioni i giovani senza
lavoro censiti dall’Ocse a marzo. Secondo le rilevazioni compiute
dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico prima del G20
di Guadalajara in Messico, le persone nella fascia dai 15 ai 24 anni priva di
occupazione sono pari al 17,1% del totale nei Paesi più sviluppati, e la
percentuale sale al 22,1% - pari a 3,345 milioni di giovani – nei Paesi
dell’Eurozona e al 22,6% - oltre 5,5 milioni di individui - se si considerano
tutti i 27 Paesi della Ue. Si tratta dei valori più alti dall’inizio della
crisi, che peraltro esprimono una media. Nei singoli Paesi la realtà è anche
più dura, soprattutto in Spagna e Grecia, dove nella prima parte di quest’anno
rispettivamente il 51,1% e il 51,2% dei giovani è risultato disoccupato. Più
indietro, anche l’Italia registra un peggioramento sul fronte dell’occupazione
giovanile: a marzo ha raggiunto il picco del 35,9%, pari a 534mila persone, un
terzo del totale della popolazione giovanile.
Se si amplia lo sguardo alla
totalità dei disoccupati, questi sono rimasti invariati tra febbraio e marzo
nell’area Ocse – all’8,2%, ammontano al 10,9% nell’Eurozona (sostanzialmente in
linea, con un incremento dello 0,1%, rispetto a febbraio, ma in aumento del
3,6% rispetto al marzo 2008) e al 9,8% (con un +0,2% congiunturale) in Italia.
A fronte di questi dati, il
segretario generale dell’organizzazione con sede a Parigi, Angel Gurria, ha
sollecitato una “azione decisiva e concreta” da parte dei governi: “Ci sono
mezzi efficienti in termini di costi per stimolare le prospettive occupazionali
dei giovani e le strategie di consolidamento fiscale devono essere
intelligenti, amiche della crescita, e prendersi cura delle nuove generazioni. Proponiamo
politiche concrete e mirate e investimenti in competenze ed educazione dei
giovani, per dare loro speranza per un futuro migliore”. Come ha spiegato da
Michele Scarpetta, del centro studi Ocse sul lavoro, “in Europa neanche la
timida ripresa del 2011 ha invertito il trend: la disoccupazione giovanile
continua a correre”.
In Italia un giovane ogni 5 non
lavora né studia, ma va a rimpinguare le fila dei cosiddetti Neet - Not in education, employment or
training – e questo fa del nostro Paese la maglia nera d’Europa. Dai dati
Excelsior resi noti dal Ministero del Lavoro risulta peraltro che nel nostro
Paese ci sono 117mila posti di lavoro per i quali nessuno si fa avanti, tra i
quali 5000 ruoli di commesso, 2.300 di cameriere, 1.400 di informatico e
telematico, 1.270 di contabile, 1.250 di elettricista, 1.000 di barista, 1.000
di idraulico.
La situazione non è migliore
negli altri Paesi europei: dal dicembre 2007 al marzo di quest’anno
l’Inghilterra è passata dal 13,6% al 21,9%, la Svezia dal 19,3% al 22,8%, la
Svizzera dal 6,5% al 7,5%. C’è però un’eccezione di rilievo: la Germania, dove
i ventenni disoccupati sono calati dall’11,4% al 7,9%. “Merito di politiche
efficienti di formazione, apprendistato e ponte tra scuola e lavoro”, spiega Scarpetta.
Servirebbe qualcosa di simile anche in Italia.
Scarpetta sottolinea infatti che
l’alternanza scuola-lavoro tedesca funziona molto bene perché l’apprendistato
non è soltanto un’intesa tra le parti o uno strumento di placement, ma coniuga
davvero formazione e lavoro. Il disastro della Seconda Guerra Mondiale ha
insegnato alla Germania che la ricostruzione passava attraverso i giovani: si
sono rimboccati le maniche, hanno insegnato ai giovani il lavoro! E i giovani
hanno imparato il lavoro on the job,
mentre la scuola ha sempre più recepito le istanze e le dinamiche del mercato,
ben consapevole che istruzione e formazione devono attenersi all’evoluzione del
mercato.
Alla riprova dei fatti, in
Germania si trova il primo lavoro all’età media di 16,7 anni, in Italia a 22. E
mentre in Italia domanda e offerta s’incontrano attraverso il canale formale
dato dai servizi di orientamento soltanto nel 15% dei casi, in Germania succede
nel 40% dei casi. L’orientamento, vero ponte tra scuola e lavoro, in Italia deve
crescere molto, E così pure pure la nostra cultura, che ci porta a cercare
lavoro attraverso il “passaparola”: nell’85% dei casi chi ha trovato lavoro in
Italia l’ha fatto rivolgendosi a qualcuno che conosce. La Germania testimonia
che crescita e sviluppo sorgono dalle nuove generazione, dalla più spiccata
capacità dei giovani rispetto agli adulti di cogliere il nuovo.
L’apprezzamento per i nostri
“cervelli” all’estero spinge qualcuno in Italia a elogiare il nostro sistema di
istruzione e formazione – sottovalutando forse che i “cervelli” hanno
un’eccellenza innata -, molti converranno sulla disdicevole distanza oggi
esistente tra scuola e lavoro. In Italia si parla di apprendistato, si fanno
intese Stato-Regioni per il rilancio dell’apprendistato stesso e grandi
convegni, ma continuiamo ad avere un sistema di Istruzione e Formazione
completamente a se stante dal mercato del lavoro. Negli ultimi dieci anni il numero
dei corsi di laurea è cresciuto esponenzialmente, in modo più funzionale alla
crescita delle cattedre che a quella degli studenti, provocando disorientamento
in questi ultimi. I dati diffusi l’anno scorso da AlmaLaurea e Fondazione
Agnelli sono eloquenti sul disastro della nuova università, dopo le riforme
Berlinguer e Moratti.
Secondo
un recente sondaggio di Adapt solo una trentina di tutti gli atenei italiano
hanno attuato la legge di quest’estate che obbligava le università a pubblicare
gratuitamente i curriculum dei propri studenti sui propri siti internet per
renderli più accessibili alle imprese. Questo significa che l’Università fatica
a comunicare col sistema produttivo, anche a livello di ascolto; gli uffici di placament cominciano ad avere una buona percezione
dei profili e delle competenze che il mercato chiede. Perché non raccogliere indicazioni
da questi uffici anche per rendere la didattica sempre più rispondente alle
esigenze del mercato? Il successo dei tedeschi parte da qui…
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