di
Giuseppe Sabella e Luigi Degan
Il 9
novembre il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha inviato alle parti sociali
la bozza del disegno di legge delega al governo sullo Statuto dei lavori. Lo
stesso giorno, intervenendo all’Università di Torino, ha spiegato che aveva promesso
di presentare il ddl solo dopo una preventiva consultazione con i sindacati sui
fondamenti e sui contenuti, puntando a ottenere un Avviso comune. E
rivolgendosi «a quell’Italia ideologizzata che non è poca», ha aggiunto che «lo
Statuto dei lavori, che era il sogno di Marco Biagi, dimostra che i valori non
cambiano, cambiano i tempi».
Il ddl
delega si propone soprattutto di identificare un nucleo di diritti universali
di rilevanza costituzionale e coerenti con la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, applicabili a tutti i rapporti di lavoro dipendente e alle
collaborazioni a progetto in regime di sostanziale mono-committenza. L’idea di
Sacconi è far rivivere lo Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970, in una
realtà diversa. Una parte dello Statuto, quella attinente ai diritti
fondamentali della persona e del lavoro, resterà ferma come norma inderogabile
di legge; un’altra parte, attraverso la contrattazione collettiva, potrà
aggiornare, modulare ed estendere le altre forme di tutela sociale adeguandole
alle diverse realtà, anche territoriali, del mondo del lavoro.
Il
vecchio Statuto, che quarant’anni fa il riformismo italiano visse come una
grande conquista, appartiene all’economia fordista, all’Italia della grande
fabbrica, che continua a esistere solo nelle idee di chi non accetta il
cambiamento della realtà. Oggi i lavori sono tanti e diversi, e l’intenzione di
Sacconi (condivisa dalle realtà sindacali che da tempo collaborano al processo
di riforma del lavoro) è di proteggere tutti i lavoratori, a prescindere dal
fatto che siano dipendenti o no, e coloro che non sono ancora entrati nel
mercato del lavoro o ne sono stati espulsi o sono in procinto di uscirne.
«La
proposta del ministro è interessante perché parte col piede giusto: prima
ancora di presentare al Consiglio dei ministri e al Parlamento un ddl si
rivolge alle parti sociali, alle quali chiede nella loro autonomia di
realizzare un Avviso comune, impegnandosi a recepirne i contenuti in un
provvedimento legislativo», dice a Tempi Giorgio Santini, segretario
confederale della Cisl. «Nel delicato equilibrio tra legislazione e
contrattazione, la scelta del ministro rappresenta indubbiamente una grande
opportunità per le parti sociali per far valere, attraverso il libero confronto
e la condivisione, il ruolo della negoziazione collettiva come strumento che
meglio rappresenta e traduce in normative le esigenze e gli obiettivi del mondo
del lavoro e dell’impresa».
Nel
1996 fu Marco Biagi, all’epoca consulente di Tiziano Treu, ministro del Lavoro
del governo Prodi, a proporre una riforma dello Statuto dei lavoratori, che
include il noto ed emblematico articolo 18. Tale articolo riguarda solo le
conseguenze in caso di licenziamento illegittimo: reintegrazione se l’azienda
ha più di 15 dipendenti, altrimenti indennità economica. Quindi la revisione di
tale norma non porterebbe – come invece afferma la Cgil – alla libertà di
licenziare, ma inciderebbe solo sulle conseguenze del licenziamento
illegittimo. E in Parlamento giace un progetto di legge presentato dal senatore
democratico Pietro Ichino che prevede di sostituire la conseguenza della
reintegrazione con una indennità economica che arriva anche oltre venti
mensilità di retribuzione. Con la proposta di Sacconi, comunque, l’articolo 18
non c’entra nulla. Non a caso in questo frangente anche Cisl e Uil si dicono
pronte a difendere i diritti dei lavoratori qualora alla Cgil e ai sindacati
conlittuali venisse voglia di sollevare un altro fuorviante polverone in
merito.
Il
giuslavorista assassinato dalle Br voleva varare una rimodulazione delle tutele
previste dalla legge 300, ampliando quelle ora inesistenti a favore del lavoro
flessibile e attenuando quelle del lavoro dipendente. Ma il Parlamento a
maggioranza di centrosinistra fermò la proposta. Fu in seguito Roberto Maroni,
ministro del Welfare nei governi Berlusconi dal 2001 al 2006, a rilanciare
l’idea dello Statuto dei lavori: prima con il Libro Bianco (ottobre 2001), poi,
dopo la morte del professore, affidando il compito di predisporre una proposta
di modifica dello Statuto dei lavoratori a una commissione presieduta da
Michele Tiraboschi, allievo di Marco Biagi e oggi protagonista del processo di
riforma del lavoro. Ma anche i buoni propositi di Maroni sono rimasti tali.
«Certamente
il tema della ridefinizione delle tutele per molti lavoratori non è
rinviabile», osserva Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil. «Da circa
15 anni si è proceduto a profonde innovazioni legislative (e non solo) per
cercare di trovare un equlibrio tra la necessaria flessibilità e le condizioni
di lavoro. Non sempre, bisogna sottolinearlo, questo obiettivo è stato
raggiunto. Ad avviso della Uil si dovrà operare per valorizzare la buona
flessibilità e contrastare gli abusi di alcune forme di lavoro (tirocini e
collaborazioni improprie). Partendo da questo si deve costruire un sistema di
regole e tutele che accompagnino lavoratori e imprese verso quella necessaria
flessibilità che è ormai parte integrante dell’attuale sistema economico
produttivo. Se lo Statuto dei lavori risponderà a questi obiettivi dipende,
soprattutto, dalla capacità delle parti sociali di costruire proposte
condivise».
Il 10
marzo del 2002, pochi giorni prima del suo assassinio, così scrisse il
Professor Biagi: «Lo “Statuto dei lavori” dovrebbe finalmente dare all’Italia
nuove tecniche per regolare tutti i tipi di lavori, anche quelli più atipici,
rivedendo vecchie norme non più in sintonia con la moderna organizzazione del
lavoro e prevedendone delle nuove capaci di governare i mestieri emergenti
nella società basata sulla conoscenza. (…) Solo alla fine, quando lo “Statuto
dei lavori” sarà stato scritto, solo allora sapremo chi ha vinto e chi ha perso
in questo confronto acceso fra governo e parti sociali. Speriamo che vinca
soprattutto un’alleanza fra istituzioni e attori sociali che punti alla
modernizzazione. Altrimenti sarebbe una sconfitta per tutti».
Le novità introdotte dal Collegato Lavoro rafforzano gli strumenti extragiudiziali di
risoluzione delle controversie di lavoro senza precludere un percorso
giudiziario che rimane pienamente disponibile e il mantenimento della gratuità
delle spese di giustizia è stato richiesto ed ottenuto dalla Cisl proprio per
non precludere ad alcuno l’accesso alla via giudiziaria.
Questi sono i tratti per noi salienti del
provvedimento: la scelta tra i due canali è volontaria, in capo
responsabilmente ad ogni lavoratore, ma la contrattazione collettiva diventa
sempre più lo strumento di regolazione della conciliazione e dell’arbitrato
proprio come la Cisl ha sostenuto da sempre nella propria ormai sessantennale
storia sindacale.
La nuova legge sul Lavoro si pone in una
prospettiva di riformismo che ha avviato un chiaro processo di rinnovamento
culturale nella società. Cisl lo condivide?
In questo percorso la Cisl ha rifiutato di
piegarsi alla logica dei radicalismi, tra l’indifendibile intoccabilità di un
diritto del lavoro immobile e totalmente inderogabile e la de-regolazione
esplicita e diffusa con il rischio di effetti lesivi dei diritti dei
lavoratori, in piena coerenza con la propria storia sindacale.
Abbiamo guardato al merito e alla sostanza del problema
e conseguentemente formulato puntuali e rigorose richieste di modifica
all’impianto originario del Disegno di Legge, ottenendo significativi risultati
che sono stati ottenuti anche in seguito all’Avviso Comune tra le parti sociali
(con l’autoesclusione della Cgil) dello scorso 11 marzo e al recepimento delle
osservazioni al provvedimento da parte del Presidente della Repubblica.
Abbiamo affermato che il rafforzamento di
conciliazione e arbitrato così come l’utilizzo responsabile di uno strumento
come la certificazione dei contratti di lavoro siano tutte sfide importanti per
un sindacato moderno. Dobbiamo ora fare un passo in più e utilizzare con
maggiore forza lo strumento degli enti bilaterali per governare, insieme alle
parti datoriali e nel rispetto delle differenze di ruolo e rappresentanza,
molti ambiti del mercato del lavoro siano queste le politiche attive del
lavoro, la salute e sicurezza, l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro,
le controversie individuali.
La resistenza che tale "nuovo corso"
incontra, è fondata sulla paura del cambiamento e sull’istinto di conservazione o ha anche altre ragioni?
In una fase storico-sociale di grandi
trasformazioni occorre essere coraggiosi nelle scelte di cambiamento. E’ la
strada che abbiamo imboccato, insieme alla Uil e a tutte le organizzazioni di
rappresentanza, con l’esclusione, purtroppo della Cgil, pur sapendo che i
mutamenti culturali e organizzativi non sono facili da attuare.
Le scelte di mutamento, per essere efficaci,
devono infatti necessariamente ispirarsi ai valori di fondo dei fondatori della
Cisl, quali l’autonomia, il pluralismo, la solidarietà, essere dinamiche nella
loro attuazione basandosi sulla condivisione da parte dei dirigenti, degli
operatori e dei lavoratori iscritti e contemporaneamente dare espressione alle
speranze e ai desideri delle persone ed essere strumento per il raggiungimento
degli obiettivi di tutela e promozione sociale del mondo del lavoro..
La resistenza cieca di quanti, in occasione ad
esempio del Collegato Lavoro, ma non
solo, si sono contrapposti alle proposte di riforma è controproducente sotto
tre profili: non permette di entrare nel merito delle questioni, si piega a
palesi condizionamenti politici e preclude la ripresa di un dialogo tra le
organizzazioni sindacali.
Gli episodi di violenza nei confronti delle
nostre sedi e, soprattutto dei nostri militanti, a partire dalla base, sono un
segno di imbarbarimento non solo dei contenuti, ma soprattutto delle forme di
confronto.
Quando non si hanno argomenti sufficienti, si
passa alle uova e agli insulti.
(Intervista
pubblicata sul sito web di Tempi – www.tempi.it
– 28 ottobre 2010)
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